fonte: http://www.unina.it/chi-siamo/cenni-storici
È dal 1992 che l’Università di Napoli è stata intitolata a Federico II, a sottolineare le sue
antichissime origini, risalenti al 5 giugno 1224, quando l’imperatore svevo, nonché re di Sicilia, da
Siracusa emanò l’editto istitutivo. A differenza che a Bologna e in altre città, lo Studio napoletano
nacque con un atto imperiale, volto a formare i gruppi dirigenti necessari al governo dello Stato.
Questa origine laica non avrebbe però impedito pesanti intromissioni della Chiesa nella sua vita
culturale.
La storia plurisecolare dell’Università di Napoli ebbe molti momenti oscuri e battute d’arresto, ma
anche slanci innovativi che attirarono sui suoi docenti l’attenzione del mondo universitario e
accademico europeo. Anche nelle fasi più difficili mai perse la forza di attrazione su una
popolazione studentesca provinciale che nella formazione universitaria vedeva delle prospettive di
ascesa sociale e di elevazione culturale.
Napoli fu l’unica città meridionale sede di studi universitari (a parte la scuola medica salernitana)
fin dopo l’Unità. Ciò contribuì alla sua crescita demografica e al suo prestigio di città capitale. A
Napoli studiarono Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca. Particolarmente importante fu la
scuola di diritto civile, soprattutto la feudistica, che ebbe risonanza europea.
Dopo l’avvento degli spagnoli, ai primi del Cinquecento, lo Studio napoletano non subì più
sospensioni e chiusure, tranne brevi periodi legati a moti, pesti e carestie. Le sue condizioni
rimasero però stentate, senza una sede fissa, e con stipendi tra i più bassi in Italia e in Europa.
L’assolutismo regio e i timori ecclesiastici di diffusione dei movimenti di riforma religiosa
portarono a un clima di pesante controllo sulle istituzioni culturali. Una bolla pontificia del 1564
impose a tutti i lettori e dottori dell’università il giuramento di fede cattolica. A questo il viceré
Ossuna nel 1618 aggiunse il giuramento di fede nell’Immacolata Concezione.
Il viceré Fernandez de Castro conte di Lemos (1610-1616), fece costruire un’apposita sede fuori
della porta di Costantinopoli (l’attuale Museo nazionale). L’edificio ospitò gli Studi fino al 1680,
quando fu destinato a uso militare e l’Università fu di nuovo trasferita in S. Domenico.
Alla fine del Seicento, la ripresa delle istituzioni accademiche favorì lo sviluppo delle scienze e la
diffusione delle maggiori correnti innovative del pensiero europeo, che subito suscitarono
l’intervento repressivo della Chiesa (i processi ai cosiddetti «ateisti»). Il rinnovamento culturale
esterno all’Università rese sempre più evidente la necessità di una riforma degli studi, che fu
ripetutamente dibattuta nel corso del XVIII secolo.
Un progetto di Celestino Galiani del 1732 il potenziamento degli studi scientifici, l’introduzione di
insegnamenti meno dottrinari, come la Storia ecclesiastica e il diritto della natura e delle genti, la
perequazione degli stipendi, l’attribuzione all’Università stessa della facoltà di dottorare,
sottraendola ai Collegi. Ma solo dopo l’avvento di Carlo di Borbone, nel 1734, fu possibile
realizzare alcune delle sue proposte. La maggiore novità di quegli anni fu l’istituzione della cattedra
di «meccanica e di commercio», cioè di economia politica, la prima in Europa, affidata nel 1754 a
Antonio Genovesi. Il suo insegnamento, svolto in italiano e fondato sui principali testi del pensiero
economico e politico europeo, formò migliaia di giovani che a loro volta diffusero le nuove
conoscenze nelle province, in scuole private o nelle scuole regie create dopo l’espulsione dei
Gesuiti (1767).
Nel 1777 lo Studio fu trasferito nell’edificio del Salvatore o Gesù Vecchio, già sede del Collegio
Massimo gesuitico. Dopo alcuni interventi parziali, una trasformazione radicale e per larga parte
irreversibile fu realizzata durante il cosiddetto Decennio francese (1806-1815), con Giuseppe
Bonaparte e Gioacchino Murat. La nuova Università si articolava nelle cinque facoltà di lettere e
filosofia, matematica e fisica, medicina, giurisprudenza, teologia. Collegati all’Università e diretti
da professori erano l’osservatorio astronomico, l’orto botanico, i musei di mineralogia e di zoologia.
All’Università erano collegati anche il Collegio medico-cerusico presso l’Ospedale degli Incurabili
e la clinica ostetrica. La Scuola veterinaria, già fondata da Ferdinando IV nel 1798, fu ristabilita da
Murat nel 1812. L’Università riaprì le porte a decine di scienziati e letterati costretti all’esilio dopo
gli eventi rivoluzionari del 1799.
Creato il 6 marzo 1848 il Ministero della Pubblica Istruzione, l’Università fu posta alle sue
dipendenze. Una Commissione provvisoria, della quale fecero parte Salvatore Tommasi, Francesco
De Sanctis, Luca de Samuele Cagnazzi, si mise a lavorare per il suo riordinamento. Ma le aule
erano svuotate dagli eventi politici, molti studenti erano partiti volontari per la guerra o impegnati
sulle barricate. La reazione portò a nuove destituzioni, al carcere e all’esilio, e a un ancor più severo
controllo politico sul mondo della cultura. Nel 1852 si pensò a dotare l’Università di un santo
protettore, S. Tommaso d’Aquino, effigiato su medaglia dorata da portare al collo con il nastro
celeste dell’Immacolata. Nel 1857 furono imposti agli studenti provenienti dalle province una carta
di soggiorno da rinnovare ogni due mesi e un certificato di pietà religiosa. Napoli arrivava
all’unificazione italiana con una Università «decaduta e deserta», come scriveva Alfredo Zazo a
settecento anni dalla sua fondazione.
Dopo l’Unità, Francesco De Sanctis, Direttore e poi Ministro della Pubblica istruzione, si disse
fermamente intenzionato a «fare dell’Università di Napoli la prima Università di Europa». De
Sanctis difese alcuni aspetti peculiari della tradizione universitaria napoletana, contro una rigida
uniformazione alla legge Casati del 1859. Le leggi Bonghi e Coppino del 1875 e 1876
uniformarono poi lo statuto dell’Università napoletana a quello delle altre Università italiane.
Mentre la popolazione studentesca raddoppiava, portandola al terzo posto in Europa dopo Berlino e
Vienna, restavano gli annosi problemi delle sedi, cliniche, laboratori scientifici, nonché delle risorse
finanziarie: tema costante delle prolusioni e delle relazioni inaugurali dei rettori negli anni seguenti,
nonché della loro azione presso il Ministero. Il colera del 1884 mise a nudo le terribili conseguenze
dell’alta concentrazione in quartieri malsani, dove erano ubicate anche le sedi universitarie: queste
divennero parte integrante del piano per il Risanamento della città, e della relativa legge del 15
gennaio 1885. Il 16 dicembre 1908 fu solennemente inaugurato il nuovo edificio sul Corso
Umberto. Secondo i dati forniti dal rettore Giovanni Paladino, l’Ateneo napoletano aveva allora
6471 studenti, che lo collocavano tra i più popolosi in Europa.
Nuovi indirizzi furono fissati con la riforma Gentile del 1923. Molti professori aderirono al
Manifesto di Croce del 1925 e numerose manifestazioni studentesche furono organizzate tra il 1923
e il 1930. Ma con il rettore Arnaldo Bruschettini (1927-1931), della Facoltà giuridica, si ebbe
l’esplicita adesione alle direttive del partito fascista su La funzione politica dell’Università, come
recitava il titolo della sua relazione del 1928-29. Attivata l’Opera Universitaria, contributi furono
erogati al Gruppo Universitario Fascista e alla Milizia Fascista Universitaria. Anche l’Università di
Napoli fu colpita dalle leggi razziali.
Studenti e docenti continuarono a crescere nonostante il plurisecolare monopolio napoletano degli
studi universitari fosse stato infranto nel 1925 dalla nascita dell’Ateneo di Bari. Le devastazioni
della guerra colpirono direttamente l’Ateneo. Laboratori e gabinetti scientifici furono requisiti dagli
alleati. L’edificio centrale di Corso Umberto fu incendiato dai tedeschi il 12 settembre 1943. Nel
1944 il nuovo rettore Adolfo Omodeo, poi scomparso nel 1946, presentava un bilancio catastrofico.
Dopo Gaetano Quagliariello, toccò a un altro storico, Ernesto Pontieri, rettore tra il 1950 e il 1959,
affrontare il compito immane della ricostruzione, mentre il numero degli studenti balzava dai
14.398 iscritti del 1940-41 a 20.033 nel 1950-51 e 26.514 nel 1951-52. Mutava profondamente
l’Università, che non solo per il numero degli studenti ma anche per la loro provenienza sociale
perdeva definitivamente il carattere elitario che aveva conservato nell’Ottocento.
Ristrutturazioni, restauri, progettazione e costruzione di nuove sedi caratterizzarono la politica
universitaria dei vent’anni successivi. Con dieci Facoltà, due Policlinici, circa 75.000 studenti, più
della metà dei quali a Medicina, Giurisprudenza e Scienze, quello di Napoli negli anni Settanta era
ormai un Mega-ateneo, che la creazione di nuove Università (Salerno 1968, Basilicata 1979) non
valse a decongestionare: dagli anni Ottanta la popolazione studentesca avrebbe superato le 100.000
unità, per poi attestarsi intorno a questa cifra anche dopo la nascita, nel 1992-93, di un secondo
Ateneo. Non solo per i numeri, ma anche e soprattutto per le profonde trasformazioni del contesto
sociale e culturale di provenienza, nel 1968 il filosofo Pietro Piovani, grande educatore di schiere di
studenti, decretava la fine dell’Università nazionale moderna nata nell’età napoleonica, in precario
equilibrio tra scienza e professione. Non «si può pretendere – scriveva – che l’Università fornisca
un’universalità che la cultura circostante non possiede».
Anna Maria Rao